top a

Né con te né senza di te

Né con te né senza di te: il legame che resta col genitore separato o assente - Sintesi della conferenza del 27 aprile 2010 - A cura di L. Francioli
In questa conferenza risponderemo a 3 domande precise sui legami affettivi ed in particolare su quelli di carattere intimo, attingendo alle conoscenze della psicologia e delle scienze umane, ma ben consapevoli che sull’argomento “amore” (che di questi legami intimi è l’etichetta” più diffusa) sono stati scritti fiumi di libri e che non a caso la poesia, l’arte e la letteratura continuano da millenni ad esso ispirarsi.

 

Le tre domande sono:
•    Perché cerchiamo una relazione con l’altro
•    Perché da adulti cerchiamo una relazione intima proprio con quella persona particolare che diventa il nostro partner (o ne fuggiamo per tutta la vita)
•    Perché una relazione intima si rompe e cosa resta o può restare di quel legame una volta formalmente concluso, in particolare se quel legame ha portato alla generazione di figli

Perché cerchiamo una relazione con l’altro
Va subito detto che la risposta non è scontata. cambia a seconda del “modello” di uomo cui ci si ispira. Per esempio, un modello che privilegi la dimensione biologico/organicistica –tipico delle scienze naturali- potrebbe individuare nell’istinto alla sopravvivenza prima e alla riproduzione poi la motivazione principale alla relazione con l’altro.
Ed invero, anche il grande Freud, con il suo modello “pulsionale” non si discostò poi molto da questi presupposti.
Noi invece faremo nostro un modello di uomo più “umanista” e accanto alle motivazioni biologico-organicistiche, tenteremo di dare corpo ad una motivazione meno scientifica ma più facilmente riscontrabile nei vissuti individuali di tutti noi: la motivazione a conoscere noi stessi, intendendo con ciò a conoscere quel limite e quel potenziale che esclusivamente appartiene a ciascuno, ad ognuno in modo specifico ed individuale.
In effetti già due millenni fa l’oracolo di Delfi –cui Socrate ispirò tutto il suo agire filosofico- esortava al famoso “Conosci te stesso”, ma noi –forti di almeno un secolo di ricerca psicologica ispirata anche ai metodi della scienza sperimentale- possiamo dare corpo a tale esortazione, aggiungendo elementi di chiarezza che ai nostri padri della filosofia ancora mancavano.
Tale ricerche confermano che il bambino viene al mondo profondamente immaturo e senza avere neppure vagamente idea di chi sia, cioè di quale limite e di quale potenziale potrà far conto nel corso della sua esistenza. Anche volendo riferirsi ad un codice esclusivamente genetico, possiamo tutti condividere l’idea che ognuno di noi sia diverso dall’altro in termini di limite e di potenziale.
Tale ignoranza circa il proprio sé non è solo del bambino, che ha infatti una profonda immaturità cognitiva, motoria e affettiva che glielo impedisce, ma è anche dei suoi genitori e in generale delle figure di attaccamento che hanno il compito di prendersene cura fino alla maturità. Anche i genitori non sanno nulla del limite e del potenziale che è proprio del loro figlio.
L’attaccamento così peculiare che esiste fra il neonato e i suoi genitori è necessario al piccolo dell’uomo molto più a lungo che nel caso dei piccoli di altri mammiferi, e questo ci suggerisce che in effetti è proprio la ricerca del sé sia ad essere più difficile e lunga se comparata con la ricerca che serve agli altri animali per attivare alla conoscenza della sola propria dotazione istintuale.
I primi anni di vita sono ormai considerati da tutti gli orientamenti della psicologia come fondamentali per costituire quel senso minimo del sé, cioè una identità. Ma questa primaria identità viene acquisita prevalentemente attraverso meccanismi di imitazione, identificazione  e introiezione, vale a dire “portandosi dentro” schemi di relazione e comportamento che sono frutto dell’interazione coi genitori. Sono questi “specchi”, cioè, che consentono al bambino di trovare una prima precoce immagine di sè, una identità, non solo in senso psicologico ma anche corporeo.
Winnicot, il grande psicoanalista e pediatra britannico, parlava di madre sufficientemente buona, ma più in generale gli psicoanalisti più contemporanei come Stern hanno parlato di “sintonizzazione” madre-bambino, cioè di processi interattivi che possono avere esiti più o meno felici. Se infatti le circostanze fanno sì che madre e bambino si trovino allineati fra loro –per esempio perché hanno temperamenti simili o perché il bambino reale corrisponde in effetti al bambino ideale che la madre si era immaginata prima di averlo ed essa è preparata a rispondere a ciò che esperisce un rispecchiamento che corrisponde a quel limite e a quel potenziale di cui dicevamo- allora le cose vanno benone: per una madre (o per un padre) sarà facile in questo caso creare quelle condizioni affettive che faciliteranno un rispecchiamento utile all’individuazione del sé del bambino. Ma se questo non avviene, e magari gli eventi della vita risultano particolarmente faticosi per quella madre o per quella coppia genitoriale, allora la “fatica” dell’allevamento del figlio può generare delle forzature, facendo si che più che il limite e il potenziale del bambino i genitori “introducano” il proprio limite e il proprio potenziale nella mente del bambino, ed egli dovrà suo malgrado affidarsi a ciò, portando dentro un “modello operativo interno” in termini di identificazioni e introiezioni non del tutto corrispondente al proprio.
Questi primi messaggi, queste prime immagini del sé che vengono riflesse nello specchio che sono i nostri genitori, portano dunque ad introiettare più i modelli dei genitori che quelli che in altre circostanze avremmo individuato come “nostri”, con esiti naturalmente tutti diversi a seconda dei casi.
Va da sé che una sintonizzazione perfetta non è mai possibile, né auspicabile: i genitori sono delle persone separate dal bambino e per quanto ci possano essere delle affinità è impossibile una coincidenza. Inoltre l’esperienza non traumatica del genitore come diverso da me è fondamentale per favorire proprio quella conoscenza di me stesso “per differenza”: Una dose adeguata di frustrazione è perciò necessaria al processo di maturazione. E invece una totale corrispondenza dei bisogni madre-bambino può generare confusive simbiosi, che porteranno il bambini a non distinguere il sé dal sé del genitore.
Sia la simbiosi che la mancata sintonizzazione che porti a introiezioni lontane dalla natura del bambino, possono in alcuni casi portare nella vita adulta a problematiche dell’identità, o in termini più generali a problematiche del carattere; tali problematiche possono essere considerate come dei “buchi” nel processo di conoscenza di noi stessi, perché se come bambini non abbiamo individuato davvero il nostro sé (non avendo avuto altra scelta che inghiottire il sé dei genitori, anche quando piuttosto indigesto) da adulti chiameremo "sé" qualcosa che in realtà non è proprio completamente “nostro”.
La Terapia della Gestalt chiama questi buchi “Gestalt interrotte” e dice che –similmente a ciò che accade con le figure/gestalt percettive ambigue cui tendiamo in ogni caso a dare un significato, cioè a concluderle in modo che l’ambiguità sia risolta- allo stesso modo queste aree sconosciute di noi stesse premeranno nella vita adulta per essere riprese e svolte, in modo da raggiungere un senso della propria identità soddisfacente per noi.

Dunque per tutta la vita cercheremo noi stessi nell’altro, pur convinti di conoscerci bene e anzi di aver bisogno del riconoscimento dell’altro!


Perché da adulti cerchiamo una relazione intima proprio con quella persona particolare che diventa il nostro partner (o fuggiamo da lui/lei per tutta la vita)

Se quanto detto fin qui vi convince, ecco che possiamo con facilità passare a tentare di rispondere alla seconda domanda.
Cerchiamo da adulti delle relazioni intime per continuare quella ricerca del nostro limite e del nostro potenziale, cioè di svelare quelle Gestalt interrotte che premono per essere “viste”.
Ma la spinta alla conoscenza di noi stessi sempre si accompagna ad un'altra spinta altrettanto forte: quella di continuare a chiamare "me" ciò che fino a quel momento ho chiamato “me”, anche se soprattutto quando è pieno di “buchi”. La ricerca del sé che non conosciamo è infatti un percorso potenzialmente pieno di angoscia, come lo è l’ignoto e lo sconosciuto. Mentre il noto, ancorchè poco soddisfacente e spesso disfunzionale, genera una sorta di certezza che acquieta e rassicura. E’ il caso della “profezia che si autoavvera”, come in quella divertente scena di W.Allen, il quale, durante un cocktail si avvicina ad una bella ragazza solitaria dicendole: vero che non verrai mai a cena con me? ricevendo ovviamente conferma alla sua identità da perdente.
Quindi le spinte alla conferma di sé così come ci siamo sperimentati fino ad ora e quella all’individuazione di parti che non conosciamo convivono e dovrebbero essere in qualche modo bilanciate: la sola conferma di sé porta infatti alla collusione e alla stagnazione, ma anche la sola esplorazione dell’ignoto porta angosce dolorosissime, al limite del sopportabile.

L’innamoramento è il modo con cui la natura ci fa lo scherzo di farci credere che questo bilanciamento è possibile. C’è un processo di idealizzazione che ci porta a vedere nell'altro proprio quei comportamenti che sembriamo aspettarci (si chiama identificazione proiettiva): ci capisce, ci rispecchia, ci soddisfa, qualunque cosa sia la fonte per noi della soddisfazione; non è che l’altro menta, è che fa davvero per un po’ quello che inconsciamente gli stiamo chiedendo, e noi reciprocamente ci comportiamo come l’altro si aspetta.
E quello che gli chiediamo e a cui rispondiamo con reciprocità è una specie di “patto” con cui comincia la nostra storia, la nostra relazione intima.
In alcuni casi il/la partner(o noi a lui/lei) ci chiede prevalentemente una conferma: che sia la più bella del reame, per esempio; in altri casi ci chiede piuttosto di esplorare con noi qualcosa che noi possiamo insegnargli e che lui/lei da sola non farebbe: imparare a sciare, viaggiare, approfondire la filosofia indiana, stare con gli amici. Infine, in altri casi ancora, la richiesta è di un mix delle due cose, più bilanciato.
Inutile dire che la richiesta consapevole del mix, se è reciproca, è quella che garantisce non tanto la durata (i patti collusivi sembrano in effetti essere i più duraturi!) ma la più felice.
La ricerca di un partner “confermante” della mia identità attuale è spesso invece la più diffusa, a maggior ragione quando i “buchi” sono tanti, ma spesso finisce per essere fonte di un “patto collusivo”che se da un lato mi solleva dalla necessità di colmare i miei buchi da me, dall’altro si rivela potenzialmente fragile. Entrambi i partner infatti sono soggetti e non oggetti, e nessuno può immaginare che durerà a lungo una relazione in cui lo scopo è soddisfare sempre il bisogno dell’altro.
Non è possibile perché succede che a volte uno dei due, per esempio guarito effettivamente dalle conferme dell’altro, sente il bisogno di andare oltre, e magari non è possibile farlo insieme,  perché gli eventi della vita, quelli del ciclo di vita di ognuno di noi, ci porta a incontrare bisogni sempre diversi, cui dobbiamo rispondere in modo nuovo.
Ne è un tipico esempio la generatività genitoriale, che spesso sconvolge quel patto iniziale, introducendo complessità nuove, cui occorre rispondere esplorando nuove parti di noi.


Perché una relazione intima si rompe e cosa resta o può restare di quel legame una volta formalmente concluso, in particolare se quel legame ha portato alla generazione di figli

Alla prima parte di questa domanda abbiamo risposto qui sopra: la relazione intima spesso si rompe perché gli eventi della vita o trasformazioni evolutive di uno solo dei partner rendono obsoleto il patto iniziale. Ed è qui spesso che c’è bisogno di una rinegoziazione, di un nuovo patto che non sempre i due riescono ad esplicitare. Quando il patto si rompe piuttosto iniziano le lotte di potere. Se le cose non si esplicitano e non si elaborano (anche un po’ in solitudine, una separazione temporanea può servire  a questo), la reazione più comune è la paura cui umanamente si reagisce attaccando o difendendosi. Con esiti spesso massacranti, anche e soprattutto per i figli.

E’ a questo punto che può essere utile una terapia di coppia, anche se spesso succede che la richiesta formulata implicitamente sia di ripristinare il patto iniziale, cosa che non è possibile.
Anche se per motivi vari la coppia può ritrovare parte di quelle ragioni, soprattutto quando ha il sopravvento la paura o la delusione della solitudine o di relazioni extraconiugali che nel frattempo si sono magari rivelate deludenti, fatalmente il disallineamento potrà primo o poi ripresentarsi.

E’ allora che si presenta la separazione o il divorzio come ultima possibilità.
Ma quando il rapporto è formalmente concluso cosa può restare?
Spesso ancora quel gioco di potere per riavere l’altro (o per combattere l’altro che mi rivuole e io no, ma non lo lascio andare, piuttosto nutro la guerra, attiva o passiva che sia) in modo da continuare nell’idea che non sono io a dovermi fare carico di quei buchi, ma è l’altro che è cattivo, sbagliato. Mi giustifico nella lotta, occupando il tempo in questo modo, anziché a guardare dentro di me. Sono i “buchi” che premono per essere visti, ma anziché guardarli preferiamo guardare gli occhi dell’altro, chiedendo ragione del perché non vuole, non riesce non può sanarli al posto mio.

All’altro si resta dunque legati quando non sappiamo riappropriarci delle parti che gli avevamo affidato e ciò che resta è la copia al negativo di quel patto ormai infranto, rimane un tentativo disperato di conservare il legame intimo ma rovesciato, che porta più che all’intimità al perpetuarsi del dolore per la sua perdita.
Ma la separazione può essere invece l’occasione dove si può riconoscere che l’altro è un soggetto come noi, non oggetto del mio bisogno, collusivo o evolutivo che sia. Può portare a ritrovare quella centralità di noi come attori della guarigione di quelle ferite che sono nell’altro come in noi stessi; può portare infine a riconoscere che il tradimento del patto -come dice Carotenuto- può avvenire anche da parte nostra, che noi se abbiamo subito il tradimento un giorno lo potremo a nostra volta infliggere perché è parte della vita.
E’ possibile ritrovarsi dunque soggetti tutti e due, come due scalatori legati insieme per raggiungere la vetta, ed è davvero auspicabile che ciò avvenga quando quella vetta è il benessere dei figli.

La realtà è che l’illusione che la coppia ci protegga del tutto dal dolore e dalla fatica di trovare noi stessi è falsa, dobbiamo poter accettare la solitudine che certi pezzi della vita ci propongono senza avere troppa paura (dobbiamo riparare quei buchi da noi, e l’amore vissuto o concluso che sia ne rappresenta l’opportunità più grande che abbiamo).

Parafrasando Sartre, non è tanto importante ciò che ci accade ma cosa noi ci facciamo con quello che ci accade.

(L.Francioli)

 

Le dipendenze affettive

Cosa è la dipendenza affettiva?
La dipendenza affettiva è una condizione relazionale negativa,  è caratterizzata da un’assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva, tende a creare malessere psicologico e fisico invece che benessere e  reciprocità.
La dipendenza da qualcosa o da qualcuno è utile  e positiva se è transitoria e limitata al superamento di una difficoltà di crisi esistenziale oppure legata alla fase dell’innamoramento, ma, diventa un problema, se diventa un atteggiamento statico, continuativo e ripetitivo

Importante è ricordarsi che ognuno di noi è dipendente dagli altri, a  tutti noi  fa piacere avere approvazione  conferme e ammirazione da parte di chi ci circonda, la vera indipendenza  esiste solo al raggiungimento di uno stato di disidentificazione egoica, ma questo è solo appannaggio di maestri spirituali o persone che hanno realizzato il loro vero sé.
Per  noi persone comuni, credo sia  importante focalizzarci su  un importante obiettivo: quello di  raggiungere un sano contatto con noi stessi e con l’ambiente che ci circonda.

Quale è il significato di un rapporto codipendente
Mi  riaggancio  al tema del rapporto collusivo o della  relazione parassitaria reciproca per limitare le angosce ed i  buchi evolutivi che  possiamo avere avuto nel nostro passato. Questo aspetto è alla base di una relazione codipendente.
Aldilà di una moltitudine di meccanismi di difesa che si intersecano fra di loro,
nelle relazioni di coppia esistono  due principali modalità relazionali:
la modalità  dipendente e quella evitante.
Il  dipendente è assuefatto dal bisogno  e l’evitante  è assuefatto dall’evitamento.
Se  non siamo   dipendenti o   evitanti  cronici   è possibile oscillare nella nostra vita  da una modalità ad  un’altra,  questo a dipendenza di chi abbiamo vicino e  da quali  ferite del nostro bambino interiore siamo toccati.
Il  vero problema  nasce quando siamo statici in una di queste due modalità.
Spesso diventa un modo di essere e di porci nella relazione, in questo caso  ci è da impedimento   nel  vivere   una relazione “sana”.
Che tipo di rapporto avevo costruito con il mio ex partner?
Quali modalità o strategie relazionali erano presenti?

Come riconoscere la modalità dipendente:
Il dipendente fa fatica a mettere dei confini fra se stesso e gli altri,
si relaziona sempre da uno stato di bisogno, si attacca, tende a manipolare l’altro,
nutre aspettative, teme l’abbandono, la separazione, la solitudine.
Troppa energia vitale è impiegata nell’amare o nel ricevere amore e approvazione.
Ha un atteggiamento negativo verso di sè, nutre un forte senso di inadeguatezza.
La dipendenza affettiva si fonda sul rifiuto,  si cercano inconsciamente relazioni nelle quali ci si sentirà infine rifiutati, oppure si mettono in atto comportamenti che ci porteranno a confrontarci con l’abbandono.
 
Spesso per poter esistere la persona dipendente ha la necessità di utilizzare la volontà e la determinazione di un altro, che, a volte, anche non volendo la trascina verso un baratro di annullamento corporeo e mentale.
Se siamo dipendenti affettivi è opportuno ricordarci che non siamo condannati, la separazione può essere un momento di dolore attraverso il quale è possibile attivare una capacità di rivisitazione e consapevolizzazione delle nostre modalità relazionali.

Riassumendo, questi sono i sintomi che caratterizzano la personalità dipendente:

1.    Difficoltà a sperimentare autostima e amore per se stessi.
2.    Difficoltà a  definire i confini con gli altri, difficoltà a proteggere se stessi.
3.    Difficoltà nel riconoscere l’altro per quello che è.
4.    Difficoltà a riconoscere i bisogni dell’adulto, e difficoltà nel prendersi cura di sé stessi.
5.    Difficoltà nell’esprimere e sperimentare la propria realtà.
6.    Paura di perdere l'amore
7.    Paura dell'abbandono, della separazione
8.    Paura della solitudine e della distanza
9.    Paura di mostrarsi per quello che si è
10.    Gelosia e ossessività
11.    Senso d'inferiorità nei confronti del partner

Le frustrazioni dovute a  genitori assenti o anaffettivi o incapaci di riconoscere i bisogni  autentici del figlio sviluppano caratteri più orali   e  dipendenti. Il dipendente va alla ricerca di un momento perduto, si chiede chi soddisferà i suoi bisogni, sente il vuoto per quella conferma di amore mai ricevuta.   

Come riconoscere la modalità evitante o controdipendente
L’evitante  o controdipendente teme di essere inghiottito, sopraffatto, pressato e fatto oggetto di aspettative.
Evita la troppa vicinanza, mantiene le distanze. Non riesce a stabilire contatti emozionali durevoli.
Madri invasive o troppo presenti sono  spesso alla base della personalità evitante o controdipendente,  madri soggette ad  ansia da rassicurazione del sentirsi di fare la cosa giusta.
Gli evitanti temono l’intimità poiché è per loro troppo pericolosa, il loro dolore primario  è  connesso ad un amore invasivo e controllante basato su un desiderio di possesso, il  loro cuore si è chiuso.

L’ evitante ha così paura dell’amore che si costruisce delle rigide convinzioni per coprire il profondo terrore di diventare dipendente e di perdere il controllo, non è in contatto con il suo bambino  interiore ferito, vive in uno strato protettivo.
Ha una modalità reattiva. Reagisce alle proprie paure piuttosto che incontrarle ed affrontarle.
I sintomi che caratterizzano  l’evitante sono: un eccesso di egotismo ed un bisogno compulsivo di spazio e di libertà.
Le relazioni codipendenti non  sono basate su un amore sano,  spesso il dipendente è attratto dall’evitante.

Nelle separazioni si va spesso a toccare il dolore ed i bisogni che soddisfacevano un compenso riparatorio.
Portando consapevolezza sul proprio  modello, sia di dipendenza che di  evitamento possiamo fare in modo  che le nostre crisi evolutive portino cambiamento e rivisitazione di questa modalità, possiamo portare un radicale cambiamento ai bisogni di base, alla relazione con gli altri, con l’ex partner   e  con i nostri figli.
CI possiamo interrogare su quali siano i nostri bisogni ed una volta portata una maggior consapevolezza sulle nostre modalità saremo probabilmente attratti da un compagno o una compagna con una tipologia diversa rispetto al passato.
Portare consapevolezza all’interno di quest’area della nostra vita ci aiuta a posizionarci con maggior fiducia e centratura nei riguardi di noi stessi ed a porci nelle relazioni lasciando alle nostre spalle modelli statici di dipendenze  e di evitamento.

Riprendendo  il tema  della separazione possiamo rivedere il legame con il padre o con la madre dei nostri figli attraverso tre diversi modalità principali.


Prima modalità: Lo vediamo come il nemico da combattere, alla base ci sono ferite da abbandono oppure sensi di colpa per avere abbandonato. Spesso le rivendicazioni economiche sono una semplice copertura di quelle affettive.
Seconda modalità è l’indifferenza: facciamo finta che…per il bene dei figli sorridiamo e collaboriamo, in verità fra di noi c’è una guerra fredda, vecchi rancori ancora presenti sui quali soprassediamo per mantenere una pace superficiale e apparente. Queste gestalt  non chiuse prima o poi riappaiono nel campo della relazione.
Terza modalità: vediamo il padre o la madre  dei nostri figli come un compagno o una compagna di viaggio con il quale si è esaurito un ciclo e  che per svariati motivi abbiamo salutato  mantenendo riconoscenza e affetto.
Il  terzo punto ci rende   liberi, i primi due ci incatenano.
L’amore vero è il risultato dell’incontro di due individui adulti, nella maggiorparte dei casi sono i nostri reciproci  bambini interiori a relazionarsi  con le loro strategie e manipolazioni, molte relazioni  sono basate su scambi e giochi di potere.
La codipendenza  si sviluppa in seguito all’incontro fra i nostri bambini interiori,
la vera intimità accade quando si giunge ad un grado di consapevolezza diverso.

Quale  significato  dare e che cosa   posso comprendere oggi di quella coppia?  
Possiamo mettere le basi ad  un rapporto che può essere  basato sull’amicizia e sul rispetto, quando invece questo  per svariati motivi non è possibile, possiamo riposizionarci proteggendoci e   stabilendo dei solidi confini.

Come uscirne?


Per affrontare il tema delle dipendenze affettive, si rivela molto  utile aldilà di un percorso psicoterapico individuale,  la terapia di gruppo. I partecipanti arrivano con problemi legati   a vuoti   relazionali o a  difficoltà nel gestire relazioni in corso, relazioni verso le quali hanno spesso sviluppato  modalità dipendenti o  evitanti. Pulire lo specchio  con il nostro ex  partner significa  portare consapevolezza sul nostro modo di essere  nella relazione, se possibile  sciogliere i nodi rimasti e muoverci verso un rapporto d’amore che  anche pur non essendo più un rapporto di coppia può essere un rapporto solido ed equilibrato.
Importante è portare consapevolezza alle  nostre dinamiche interiori, agli automatismi, ai condizionamenti subiti, alle nostre ferite.
Comprendere ed osservare quando agiamo attraverso un adulto centrato oppure attraverso le ferite del nostro bambino \a interiore.

Il nostro essere può  essere rappresentato con un cerchio,
La parte esterna è  protezione  e compensazione, in mezzo c’è la  vulnerabilità, il nucleo centrale è la nostra  "l'essenza".

Grande importanza viene data nella codipendenza al bambino ferito che ci portiamo dentro.
Questo bambino ha alla base delle paure non riconosciute né accettate.
Sabotiamo le nostre relazioni perché alla base  c’è un bambino spaventato che  è sfiduciato e sofferente.
Cosa è rimasto del nostro condizionamento genitoriale? quanto è ancora presente nelle nostre relazioni il bambino di allora che difendeva mamma e papà sentendosi sbagliato? partendo da qua  è possibile il movimento  verso la centratura ed il supporto dell’adulto dentro di noi.
Gradualmente posso passare dall’amore-bisogno” all’amore-dono”.

Conclusione

Ricordiamo che l’amore bisognoso è quello fondato su un vuoto interiore, l’amore che cerca compensazione, compensazione affettiva  che a volte può diventare anche compensazione economica, è un amore che cerca supporto, una spalla, un appoggio.
Il dare se è eccessivo può nascondere un bisogno ed un intento manipolatorio anche se spesso  inconsapevole.
L’amore dono è un amore invece molto più raro, più evoluto è un amore basato sull’abbondanza e  sull’essere presenti.

Termino questa introduzione alla codipendenza citando  le parole di  Osho Rajneesh tratte dal libro “ Con te  e senza di te”  ( titolo  originale “freedom and aloneness”) ed. Mondadori

“L’amore vero accade  quando sei maturo. Diventi capace di amare quando sei cresciuto. Quando sai che l’amore non è un bisogno ma un “traboccare”… “quando non hai amore, chiedi all’altro di dartelo; sei un mendicante e l’altro chiede a te di darglielo; ebbene, due mendicanti che tendono le mani l’uno verso l’altro ed entrambi sperano che l’altro abbia amore…ovviamente entrambi alla fine si sentiranno sconfitti ed ingannati”.

Non è più con te che posso realizzare quale è il mio pezzo intrapsichico ripetitivo e stagnante.
Non senza di te perché sei il padre/madre di mio figlio/a.
Togliamo le proiezioni, lasciamo la relazione pulita, certamente ci vuole del tempo ma è un compito importante, una missione utile  per alleggerire noi ed  i nostri figli da triangolazioni faticose.

(D.Santabbondio)

torna a > articoli e abstract