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Essere, più che dire

Ho una figlia di 14 anni e sono divorziato da molti anni. Mia figlia vive con la madre e io la vedo con le regolarità che le alternanze ufficiali mi consentono. Le voglio molto bene, eppure da qualche tempo non riesco più ad avere un dialogo con lei.

 

E’ successo tutto improvvisamente, nel giro al massimo di sei mesi: è arrivato in dono dalla mamma un bel i-phone e un collegamento ad internet ed io sono scomparso, a favore di lunghe chattate e ossessivi contatti via face book, anche e soprattutto quando è con me. Quando cerco di regolare la faccenda dando un minimo di confine a questa smodata indigestione di elettronica sono musi e occhiatacce e soprattutto un mutismo che non ci consente più nemmeno di parlare del tempo che fa. Figuriamoci di cose più serie ed utili, come ad esempio cosa succede nel mondo o quali valori è importante adottare nel vivere.

Sua madre mi dice che sono comparsi anche “gli amici”, la compagnia, e i pomeriggi al parchetto (da quando è finita la scuola pare che stia là per 3 ore al giorno). Lei dice che è normale, non c’è nulla di cui preoccuparsi, per me invece la preoccupazione cresce perché non riesco neppure lontanamente a sapere da lei come funziona, cosa si dicono e come sta.Sono perplesso e impotente di fronte a questa figlia che respinge col mutismo e l’indifferenza tutte le proposte che le faccio: la piscina (e il valore dello sport), i viaggi, le chiacchierate. Ho l’impressione di averla persa per sempre.

(Michele, Padova)

 

Il compito di un genitore di un adolescente che cresce non è semplice. Quei bei pallini di coccole che erano i nostri figli fino a ieri, facili alla persuasione e magari anche bisognosi di noi, improvvisamente diventano esseri sconosciuti e ribelli, che -anche se non sempre aggressivamente- mostrano però in modo molto chiaro che non è (più) noi che vogliono e ciò di cui hanno bisogno.

Gli adolescenti prediligono la provocazione, è il loro modo di smarcarsi dai modelli dei genitori in modo netto: sputano fuori con una smorfia tutto ciò che prima hanno ingoiato senza nemmeno saperlo e qualche volta, mentre lo fanno sembrano in grado davvero di nutrirsi da soli, di avere un cibo diverso da quello che i loro genitori offrono, un cibo tutto loro, molto più nutriente. Ma non è così, questo cibo alternativo non c’è, non ancora, non dimentichiamolo. Prima di arrivare a nutrirsi da soli, il che implica un riconoscimento del proprio bisogno e una ricerca attiva per soddisfarlo, sembra che gli “adulti in prova” debbano liberarsi del cibo che hanno ricevuto, come se (proseguendo nella metafora alimentare) dovessero prima liberarsi lo stomaco vomitando, per sentire la fame. Solo poi arriverà un cibo nuovo, se tutto andrà bene.

Ma molti genitori a quel punto rinunciano ad avere un rapporto coi figli: troppo faticoso, troppo frustrante; “io non li capisco” dicono, “se non sanno apprezzarmi, peggio per loro, prima o poi cambieranno atteggiamento”. E aspettano lì in un canto, spettatori rassegnati ma infelici di una vita non più loro.Altri invece intraprendono la strada della guerra aperta e da lì in poi è un continuo litigio, insulti, minacce, ritorsioni, ricatti. La guerra è un modo per restare in “contatto”, fa niente se fa male, è sempre meglio del nulla. E’ un modo di fare i conti con la propria impotenza che consente se non altro di mobilitare una energia, più elettrizzante della depressiva rassegnazione di cui sopra.C’è infine una terza categoria di genitori che decide che piuttosto che perderli o che far la guerra è meglio colludere; diventano loro stessi dei teenager, comprano le cose alla moda e anche fisicamente assomigliano ai loro figli, per come si vestono e come si atteggiano; se i figli vogliono l’i-phone loro non sono da meno con il blackbarry, e alle chat adolescenziali oppongono le chat per adulti, ma i corteggiamenti ci sono anche lì e si assomigliano. Insomma, più che i genitori sembrano fratelli e sorelle, e di essi/esse mirano ad avere il ruolo in termini di complicità e confidenze. Un modo insomma per sentirsi efficaci come genitori, a volte più dell’altro che quelle modalità non adotta.

Io dico che deve esistere per forza una quarta via, che passa però da noi, e che riguarda la nostra capacità di tenere dritta la barra della consapevolezza, senza irrigidirsi e nascondersi dietro al ruolo genitoriale, che di per sé non ci dà alcun merito (ai tempi dei nostri nonni invece dava qualche vantaggio, ma quel tempo non c’è più).

E’ la via di chi sa il fatto proprio, di chi ha ben chiaro le proprie miserie e le proprie virtù, e che grazie a ciò evita di vedere le debolezze dei figli piuttosto che le proprie, così che coi figli possa mettere al centro la propria “competenza” di adulto. La via di chi sa che è questa competenza -agìta nel concreto- che i figli vedono, mentre le parole non le ascoltano.

Non si tratta di proporre chiacchierate sui valori o di proporre attività che piacciono all’uno o all’altra, ma di sostenere un confronto su di esse, confronto che può essere anche spiacevole; ed è spiacevole perché piuttosto ci viene naturale una delle tre scelte più sopra: soccombere, combattere, colludere, dal momento che confrontarsi è più faticoso del rinunciare, meno adrenalinico del fare la guerra, meno gratificante del colludere. Ma è l’unica via che consente di fare al meglio il ruolo di genitore di fronte ai figli adolescenti, quando sono impegnati a fare al meglio il ruolo che la natura impone loro a 14 o 15 anni: cioè a fare le prove per la vita adulta, vedendo fino a che punto arriva la loro autonomia e lì autorevolezza di chi hanno di fronte.

Cosa vuol dire nel concreto tenere la barra dritta della consapevolezza? Per esempio, nel caso di questo padre, vuol dire interrogarsi sul perché è tanto fastidioso per lui vedere una figlia perdere il suo tempo dietro a cose inutili, e soprattutto a cosa gli serve mostrare questo fastidio, sapendo che la figlia non potrà che ricambiarlo con altrettanto fastidio.

E ancora viene da chiedersi: perché (chissà perché) ritiene che sia importante parlare prevalentemente di cose utili, importanti, come valori e principi, piuttosto che semplicemente lasciarli agire nella sua persona, attraverso le cose che fa, nel suo modo di stare al mondo, negli amici che sceglie, nella concretezza delle opere che lascerà in eredità, nelle relazioni con chi gli sta intorno. Avendo fiducia nel fatto che è il nostro essere a trasmettere i nostri valori ai nostri figli, in modo quasi indelebile.

Forse –viene da dire- il fastidio serve a mettere a tutti il cuore in pace circa la colpa di questa difficoltà relazionale: la figlia si dirà che la colpa è del padre, quest’ultimo che è della figlia!

I ragazzi sono micidiali nell’intercettare le ambivalenze, quel predicare bene e razzolare male con cui noi cerchiamo di saltare la curva faticosa del confronto sui contenuti (un vero tornante in cui il rischio è di ribaltarsi). Mentre hanno un sacrosanto bisogno di qualcuno che sostenga il confronto sui modi di essere, più che di dire; ed è lì solo lì che si vince la battaglia contro l’i-phone e le chat: nella semplicità dell’essere, più che nella manipolazione del dire e nella vacuità dell’avere.

Lei Michele mi sembra un padre presente, pur nei limiti della distanza logistica dovuta al divorzio: utilizzi il tempo che trascorre con sua figlia per fare cose con sua figlia che le consentano di mostrarle i valori in cui crede, negoziando opportunamente con gli pseudo-valori con cui sua figlia sta facendo le prove (ogni generazione ha i suoi: ai miei tempi era la minigonna e il kajal sugli occhi, che adesso mi fanno un pò sorridere al confronto); provate ad alternare il ritmo: un po’ di chat e un po’ di piscina, in modo da consentirvi lo scambio, senza per forza abdicare.

Mi raccomando però: quando è in piscina si mostri in grado di sostenere il valore dello sport che lei dice che ha dentro. Si rammenti che se bluffa, se non sarà in grado di essere coerente con quello che dice, sua figlia non avrà altra scelta che continuare a provocarla, finchè non smaschererà il falso: in fondo fra due bracciate in una vasca e una chiacchierata in chat potrebbe non esserci  poi una grande differenza.

Un caloroso in bocca al lupo.

(a cura di L. Francioli)

 

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